La donna allo specchio

La donna allo specchio

Parlare di “questione” femminile mi lascia sempre l’impressione del nonsense. Ad ogni questione femminile – mi sembra – dovrebbe corrispondere una questione maschile oppure non ci dovrebbe essere alcuna questione. Leggendo la “Storia delle donne in occidente”, raccolta di scritti storici e filosofici curata da Georges Duby e Michelle Perrot, a partire dall’antichità antichità greca e romana per giungere ai giorni nostri, si scoprono e si puntualizzano leggi e norme definite dall’opera di maschi legislatori, che stimolano alla riflessione nel merito dei diritti femminili.Quando gruppi di migranti arrivano nel nostro paese, comodamente sistemati su poltrone di aeroplano o pericolosamente ammassati su barconi malandati, ammettendo che riescano a superare le molte (o poche) difficoltà di inclusione, trovano, belli e pronti, pacchetti di leggi e norme buone e cattive, scritte dai nostri legislatori ben prima che quei migranti pensassero a questo luogo per una possibile loro vicenda umana. Ma le donne non sono arrivate sulla terra provenendo da un da una altro pianeta: donne e uomini si sono sviluppati insieme; insieme hanno vissuto, mangiato e generato;  le donne non sono arrivate a cose fatte.

Potremmo, di fronte alle fortissime differenze che si rilevano nelle norme accumulate nel corso dei secoli, forse immaginare che il rapporto – non egualitario – sia il risultato di un esercizio di violenza: i maschi, più brutali, violentarono le femmine, più deboli fisicamente, trascurando qualsiasi diritto e trattandole come esseri inferiori; poi, nel corso del tempo, alcuni diritti vennero lentamente riconosciuti, almeno in parte.

È pur vero che la tradizione, attraverso i miti e attraverso norme scritte, ha sempre evidenziato due classi di doveri: alcuni fanno riferimento ad una legge scritta (cerebrale? artificiale?); altri, invece, fanno riferimento ad una legge non scritta (emozionale? naturale?). Secondo la tradizione, la prima classe costituirebbe un riferimento maschile; la seconda, un riferimento femminile. Su tali classi di doveri si giocherebbe il potere di ciascuno, nelle reciproche relazioni.

Tuttavia la letteratura, anche il riferimento bibliografico di cui sopra, sottolinea spesso la parzialità di trattamento rispetto al genere sessuale, come conseguenza di una pretesa o presunta superiorità del maschile sul femminile. Naturalmente, un’ipotesi siffatta è espressione di una fantasia delirante ma, per amor di logica, vogliamo precisare di credere che se dal genere sessuale scaturisse un’inferiorità autentica, le femmine non potrebbero emanciparsene mai (come accade invece, ed accadde anche sin dall’antichità ed in ogni epoca). Ma anche l’idea di una completa prevaricazione sul femminile, inteso come l’insieme della popolazione, è altrettanto delirante ed incongruo rispetto all’evidente ed inevitabile desiderio di sopravvivere insieme, femmine e maschi: a causa dell’esigenza procreativa? Ma se fosse per questo le donne (ne avrebbero facoltà soprattutto in certi momenti) potrebbero decidere di decimare i maschi – come si narra facesse il popolo delle Amazzoni – lasciandone in vita solo alcuni per garantire la riproduzione femminile, conquistando attraverso la violenza il potere altrimenti “negato”. Che ciò non accada, a parer mio dipende, da un unico motivo.

In ogni caso la questione femminile appare e riappare troppo spesso come un enigma irrisolto: indizi molto interessanti ci vengono dalla nostra cultura occidentale: i miti dela Grande Madre, di Zeus, poi delle Amazzoni e di Pentesilea; poi di Apollo e Dafne; poi la vita e le opere di Saffo e così via avanti nel tempo, fino al momento attuale (si legga ad esempio “Il normale caos dell’amore”, Ulrich Beck ed Elisabeth Beck-Gernsheim).

“La donna allo specchio” tratta proprio della questione femminile: è strutturato dall’intreccio di tre storie, che si alternano, narrate in prima persona o attraverso l’espediente delle “testimonianze”. La “questione” viene affrontata attraverso un’indagine sulla personalità e sulla sessualità secondo tre direttive, ciascuna delle quali caratterizza una protagonista: l’unione mistica ed estatica; l’unione narcisista e frigida; l’unione frenetica ed orgiastica. Si tratta, cioè, sempre, di una miscela molto agitata tra spiritualità e sessualità. La prima protagonista è una “mistica”, vissuta nelle Fiandre nel tardo rinascimento della riforma luterana, di una religiosità panteistico-animista – con fortissimi desideri passivi diremmo, malati di psicoanalisi – la cui vicenda si conclude su di un rogo; la seconda è una ricca dama viennese, disorientata nel ruolo di moglie e perfetta “fattrice” necessaria per la prosecuzione della stirpe – la cui gigantesca invidia del pene traspare in ogni riga del racconto – ; la terza è una giovane diva holliwoodyana, il cui sport consiste nell’avere rapporti sessuali con qualsiasi uomo che possa destare il pur minimo interesse – manifestando onnipotenti fantasie castratorie insieme fortissimi desideri omosessuali –. Le tre storie confluiscono in un unico epilogo: la cronaca scritta della fine di Anne (la mistica), rintracciata da Hanna (divenuta psicoterapeuta e ricercatrice)  della cui biblioteca entra a far parte, arriva nelle mani di un regista cinematografico che ne trae una sceneggiatura; Anny (l’attrice) si innamora del personaggio e ne interpreta il ruolo. Il libro si chiude sulla ripresa cinematografica del rogo di Anna/Annie.

La scrittura è gradevole ed il libro scorre, suggerendo però l’idea di una costruzione accattivante posata sopra una teoria farraginosa – come avviene talvolta ad Eric-Emmanuel Schmidt soprattutto in opere impegnative – : non “arriva” il concetto principale che l’autore propone – la donna “angelicata”? Più vicina dell’uomo al mistero? – abbastanza oscuro e confuso. La persona che ne viene fuori è più narcisisticamente malata che affascinante.

Emerge, a mio parere, l’eccessiva importanza attribuita alla vagina – forse a causa delle modalità della procreazione – che induce ad idee, di stampo fortemente individualistico (la “donna unica”), di essere portatrice di un qualcosa – un essere o un’idea – eccezionale. Pur essendo convinti che ogni individuo esistente sia unico ed irripetibile nella potenziale ricchezza ed umanità, siamo assai meno sicuri dell’unicità delle singole sue parti: occhi, mani, pène, capelli, vagina… Intendo dire, attribuendo pari forza alla medesima dichiarazione per i maschi e per le femmine, che non è assolutamente necessario che bambini debbano nascere proprio dalla vagina X, frutto del  concepimento proprio insieme al pène Y – eccetto un unico caso, noto a chi sia credente –;  né lo è, parimenti, il fatto che la vagina X accolga necessariamente il pène Y (e viceversa, oltre a tutte le varie possibili combinazioni di pène con pène e di vagina con vagina). Normalmente se ne fa un gran clamore, drammatizzando il tutto: ma tant’è, l’inconscio sociale funziona così e la vanità di ciascuno non si attenua.

Abbiamo conosciuto Eric-Emmanuel Schmidt a teatro (Il Vangelo secondo Pilato); ne abbiamo letto molteplici opere con vero piacere: Il posto dell’altro, Monsieur Ibrahim e i fiori del corano, La mia storia con Mozart; altre con meno interesse. Ama arricchire i racconti di spunti filosofici, nascosti garbatamente entro le righe: talvolta gli riesce benissimo, altre un po’ meno. Riuscire a farlo, teorizzando sulla donna, è difficile per tutti: la nostra cultura è troppo ipocrita e l’inconscio sociale troppo petulante. Ma dopo avere cucito un vestito nuovo per l’imperatore, bisognerebbe saper cucire un vestito nuovo anche per l’imperatrice.

pietro de santis

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