World Music al Parco della Musica

World Music al Parco della Musica

Un bel regalo da fare (o da ricevere) è una carta prepagata per i concerti organizzati nell’Auditorium del Parco della Musica di Roma. Essa ha il duplice pregio di consentire la scelta e la prenotazione delle poltrone, per gli eventi desiderati, anche con larghissimo anticipo e di garantire anche un forte sconto sul prezzo del biglietto; ha però un difetto notevole: non consente l’acquisto di biglietti per la musica classica.

Comunque, facendo parte della seconda schiera – di quelli, cioè, che la carta l’hanno ricevuta come regalo – abbiamo ben volentieri prenotato un cospicuo numero di concerti per la rassegna definita “World Music”.

Raccontiamo, perciò, due di questi eventi.

Il nome di Teresa Salgueiro ci ha attirato subito, anche se non ricordavamo nulla di lei, se non la sua nazionalità portoghese. Non è giovanissima, porta benissimo i suoi quaranta anni, ed è conosciuta principalmente per essere stata, a partire dall’età di diciotto anni, la voce del complesso musicale dei Madredeus. In quella compagine in effetti l’avevamo ascoltata. Prima di quell’età Teresa Salgueiro cantava già il Fado e la Bossa Nova nelle strade e nei bar di Lisbona tanto che a sedici anni, con una discreta carriera alle spalle, cominciò ad esibirsi insieme ad alcuni amici nella città vecchia, nei quartieri del Bairro Alto e dell’Alfama: si tratta – in un certo senso – di “une enfant prodige”.

Teresa formò il gruppo dei Madredeus insieme al chitarrista e produttore Pedro Ayres Magalhães, al violoncellista Francisco Ribeiro, al fisarmonicista Gabriel Gomes e al tastierista Rodrigo Leão; con loro ha interpretato una delle parti principali nel film Lisbon Story, di Wim Wenders, curandone la colonna sonora “Ainda”. Dal 2007 si esibisce come solista.

È stata invitata al Parco della Musica per presentare il suo disco “O Mistério” con una formazione per lei tipica: fisarmonica (Carisa Marcelino), contrabbasso (Óscar Torres), chitarra (André Filipe Santos), percussioni (Rui Lobato).

Il programma di sala recita che l’idea di O Mistério si basa su di una ricerca collettiva la cui costruzione riflette il contributo di ogni singolo musicista: provenienti da aree artistiche molto diverse tutti hanno partecipato alla costruzione di un linguaggio comune. L’ispirazione per i testi si è sviluppata attraverso una riflessione sulla dimensione umana, sul mistero della vita. Gli artisti hanno deliberatamente cercato l’isolamento nel convento di Arrabida e lì, in un clima di contemplazione e di intimità, hanno partecipato ad una esperienza unica che ha segnato il gruppo nel suo primo lavoro musicale.

Detto questo ci attendevamo le atmosfere del Fado e della Bossa Nova ma, a parte il ricorso massiccio e preponderante al modo minore, nelle tonalità orientate verso nostalgia e riflessione dolorosa, non siamo stati ripagati dalle attese.

Elemento predominate del concerto – dell’album non sappiamo dire perché non lo abbiamo ascoltato – è l’intervento massiccio e ostinato delle percussioni che danno l’impronta di una House Music, mentre chitarra e contrabbasso elettrici, fortemente amplificati, lasciavano alla fisarmonica solo echi di lontananze. Se l’effetto cercato è quello di una musica pesantemente ritmata, che recuperi qualcosa tra le macerie della tradizione, si può dire raggiunto.

La voce della Salgueiro è bella ed intonatissima, quasi uno strumento musicale, ed ottima la capacità di utilizzare il microfono che tiene sempre un po’ lateralmente al viso: ci ricorda Antonella Ruggiero sia vocalmente sia per la carriera artistica. Non ci sono eccessivamente piaciute le composizioni, che pretendono essere qualcosa di più di semplici canzoni, ostinatamente ripetitive nei moduli sonori e banali nelle melodie: facciamo eccezione per “A Espera”, quasi solo vocale, per la quale abbiamo provato qualche intenso brivido di emozione. Una vera ovazione di applausi del pubblico romano ha dimostrato, al contrario, un notevole gradimento.

Eravamo invece solo curiosi di vedere ed ascoltare Fatoumata (Fatou) Diawara, giovane cantante (trentenne) di origine Maliana, ma nata in Costa d’Avorio e attualmente residente in Francia. Ragazza energica e testarda, in seguito al rifiuto di frequentare la scuola fu inviata presso una zia, in Mali, per essere educata. Lì lavorava aiutando la zia, impegnata sui set cinematografici: un bel giorno, come nelle favole, la sua bellezza di adolescente catturò l’attenzione del regista e le fece ottenere una piccola parte in “Taafe Fangan” (“The Power of Women”). L’apparizione sullo schermo affascinò un regista più famoso, Cheick Oumar Sissoko, che la scelse come protagonista per il film “Genesis” (1999).

Grazie a questo film la sua personalità varcò i confini Maliani e Jean Louis Courcoult nel 2002 le offrì un posto nella propria compagnia teatrale. Durante le prove, nei momenti di tranquillità, Fatou cantava per divertire i colleghi e il regista decise di utilizzarne le doti anche nelle performance della compagnia. Incoraggiata dalla risposta del pubblico, ella cominciò ad esibirsi nei caffè di Parigi manifestando una vera passione musicale. Recitò nel musical “Kirikou et Karaba”. Imparò a suonare la chitarra e lavorò alla preparazione di diversi demo per i quali compose e arrangiò tutte le canzoni suonando ogni strumento, dalla chitarra alle percussioni, dai bassi alle voci principali e secondarie. Le sue composizioni le fruttarono un contratto con il World Circuit e la registrazione del suo primo album “Fatou”, uscito nello scorso settembre. La musica della Diawara si ispira alle tradizioni Wassoulou, del Sud Mali, integrate a moduli di world music: si tratta di un prodotto ben costruito, tutt’altro che naif.

Il gruppo che l’accompagna è di grande professionalità ed è stato selezionato in base a scelte artistiche ma anche di opportunità commerciale, al fine di coinvolgere un pubblico di cultura “progressista”: è composto da un batterista africano, di impostazione jazzistica e piuttosto discreto; da un chitarrista virtuoso di tradizione americana (alla Jimi Hendrix o alla Carlos Santana per intendersi) ed una percussionista creola, originaria delle Isole della Reunion, munita di strumenti etnici, dall’impatto soft e molto di atmosfera. Fatou si presenta con un copricapo maliano coloratissimo ed inizia a cantare e suonare un rock educato, intriso di moduli Wassoulou soprattutto nel cantato, aggressivo ed accattivante. La voce è interessante, ricca di coloriture espressive e capace di un’ampia estensione ma, soprattutto, il suo strumento migliore è nella prorompente personalità. Propone canzoni sui contenuti della tradizione maliana o sui “clandestini” che attraversano il mare – nostri fratelli disumanizzati – anche se, in buona coscienza, sono portato a ritenere che le sue informazioni sul drammatico problema siano del tutto uguali alle mie: scarsissime e desunte solo da immagini televisive o dal web. Gioca con la propria musica etnica tanto quanto potremmo fare noi – qualora ne fossimo capaci – con la nostra, ma dimostra sempre un’ottima qualità vocale unita ad notevolissima presenza scenica.

Consapevole dell’ascendente guadagnato, ad ogni minuto, sul pubblico che pian piano diventa suo, decide di “colonizzarlo” definitivamente cantando e mimando la danza della semina  –  che noi già conoscevamo, avendo assistito ad una perfetta performance delle “piccole sorelle” (suore cattoliche) del Mali che gestivano un meraviglioso ristorantino di Roma (“Eau de vie”) vicino alla chiesta di Sant’Eustachio in zona Pantheon – e poi improvvisando un passo di danza nuovo per indurre il pubblico a seguirla. Rotola la platea fuori dalle poltrone, in un caotico coinvolgimento, ragion per cui, seduti in prima fila, in un momento vediamo tra noi e il palco un muro di “culi” ballonzolanti: fine dello spettacolo. Ce ne andiamo non tanto per il fastidio, ma perché comprendiamo che il concerto è finito, a parte poche frattaglie musicali. (pietro de santis)

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