Il mio Coppi (pedala, pedala)

Il mio Coppi (pedala, pedala)

La leggenda di Fausto Coppi si ammanta dell’alone del mito e la fine prematura ed assurda del ciclista, curato malissimo da medici incompetenti, ne circonda la figura di luce: “Muor giovane chi agli dei è caro” (Menandro).

A cinquanta anni di distanza, un suo innamorato – ma in questi casi si utilizza la parola tifoso –  ha chiesto ad una delle più grandi attrici italiane di raccontarne la storia attraverso i ricordi salienti della vita, delle vittorie e della morte.

Pamela Villoresi, su testi di Albe Ros drammatizzati da Daniela Morelli, ha prestato così il corpo, la voce e l’anima a Maria, sorella maggiore del grande campione: il risultato è così stato così sconvolgente da indurci a consigliare, a quanti ne abbiano la possibilità, di correre letteralmente a vederlo (anche perché, a quel che ci risulta, la programmazione per ora è limitata).

L’attrice recitava tutto il tempo in bicicletta – una modernissima cyclette da palestra – nella penombra della quarta parete fornita da un velo, pedalando con gli stessi ritmi del grande campione, le cui immagini venivano, di quando in quando, proiettate sullo quello schermo trasparente. Con gli accenti pesanti della terra natia (la provincia di Alessandria), con l’ingenua ignoranza di chi ha solo lavorato, con l’attaccamento quasi animalesco di chi ama, ammira ed invidia nello stesso tempo il corpo di chi ti ha costretto al sacrificio e per questo trasforma ogni aggressività in dedizione, ci ha proposto la straordinaria figura, tenerissima ed inesauribile di Maria, vero campione di umana semplicità ed affetto.

Gli applausi a scena aperta ed a conclusione del breve spettacolo da parte di un pubblico sparuto – chi va a vedere una “cosetta” su Coppi? – ma tenacissimo nel richiedere a più riprese l’uscita dell’attrice che ringraziava, un po’ commossa anche lei, mentre molti adulti e navigati spettatori piangevano “come vitelli” e si apprestavano a far la fila verso il camerino per ringraziare una volta di più.

In una rapida radiografia, nello spettacolo emergono certamente non poche contraddizioni: se la drammaturgia del testo ci pare attenta e valida, le voci fuori scena – rispondenti ad una logica di realismo – non risultano gradevoli e piuttosto appaiono inutili; se il vestito indossato dalla Villoresi è in perfetta armonia con l’epoca e la classe sociale della protagonista, la cyclette certamente non lo è; se le musiche di scena sono scelte con cura e coerenza, la canzone “Bartali” di Paolo Conte devia verso un altro mito e altri timbri musicali così da indurci a pensare ad una sorta di “captatio benevolentiae”. Ci sembrano invece semplici ed efficaci sia il progetto visivo di Andrea Giansanti sia la regia e le luci curate da Maurizio Panici.

Ma, bisogna riconoscere, la chiave di volta del tutto è nell’interpretazione: la Maria Coppi di Pamela Villoresi si erge come il grande personaggio.

Per chi si trova a Roma val la pena sapere che anche l’ambiente che ospita lo spettacolo è un piccolo gioiello: il Teatro di Palazzo Santa Chiara. L’edificio, di struttura medievale e vari successivi rifacimenti, è situato nei pressi del Pantheon ed ha ospitato Santa Caterina da Siena nell’ultimo periodo della vita: qui è morta, ma le ossa conservate nella cappellina a lei dedicata e visitabile non le appartengono. Il corpo della santa è venerato in Santa Maria sopra Minerva. Per intanto lo spazio della cappella, gli affreschi ed i quadri furono sistemati nel 1638 dal Cavalier d’Arpino e dalla sua scuola, mentre il soffitto del foyer mostra uno straordinario bassorilievo tardo seicentesco, rappresentante l’Annunciazione, che non siamo riusciti ad attribuire (ci fa pensare ad Antonio Gherardi).

Non sono consigliati – al momento – gli aperitivi proposti dal bar del teatro, sebbene desiderabili in quello spazio gradevolissimo e ben arredato.

(pietro de santis)

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