Le sette opere di misericordia corporale – XVII

Le sette opere di misericordia corporale – XVII

Intanto mentre leggeva, appoggiato al sedile di pietra del giardinetto, qualche pagina di un libro – tanto per darsi un contegno portava con sé un romanzo di Tahar Ben Jelloun per crogiolarsi intorno al tema delle diversità – arrivò Giada la collega insegnante interna, facendogli il segnale che si poteva entrare.

Questa volta le formalità furono poche perché il guardiano già lo riconobbe e attraversarono senza ostacoli le sei porte d’acciaio ben temperato che separano l’esterno dall’interno, sotto lo sguardo di dodici occhi altrettanto ben temperati dalle sanzioni disciplinari.

Camminarono per il lungo corridoio che attraversa gli uffici, superarono la piccola biblioteca della Casa, svoltarono nel corridoio di destra dopo aver superato un altro cancello d’acciaio, quello che costeggia i cortili interni e dalle cui finestre si può osservare il campo di calcio circondato da alte barriere di reticolati.

Nel campo di calcio un uomo corricchiava intorno al perimetro segnato con la polvere di gesso, mentre tre uomini camminavano affiancati con passo furente avanti e indietro esattamente al centro del campo, lungo la direzione maggiore. I tre gli suscitarono angoscia; la loro passeggiata esprimeva violenza o almeno così fantasticava il professore.

Ma fu una fantasia breve perché il corridoio lo portò a svoltare subito ancora a destra; oltrepassato un ultimo cancello di sbarre entrarono nelle aule della scuola.

Il professore lo chiese a Giada, ed ella si fece imprestare un paio di pericolose forbici dalle guardie carcerarie, per aprire “il plico” al momento opportuno; poi tutti e due sedettero in attesa che si compissero gli eventi.

Trascorsero alcuni minuti in emozione cercando argomenti per conversare ed accorciare l’attesa, ma presto arrivarono i detenuti ed essi diedero inizio al carnevale.

“Parlo di carnevale –

pensava il professore –

non per mancanza di rispetto (attenti alla negazione!) né perché i candidati manchino di serietà, ma per lo stravolgimento delle categorie morali e spazio temporali”.

“Arriva primo mio fratello il travestito”

si disse il professore osservando Rolando – Gloria, che fece il proprio ingresso con passo allegro nei sandali colorati, annunciando con voce abbastanza musicale la successiva venuta degli altri due.

Era in jeans e il bel sedere tondo suscitava attenzione tanto quanto l’inequivocabile bozzo sul davanti; indossava una canottiera bianca attraverso la quale, con noncuranza adolescenziale di trentenne, lasciava intravedere mammelline sode e senza eccessi.

Col tempo giusto di una pièce teatrale, arriva il fratello dell’isola, con borsa (di plastica trasparente) piena di libri e appunti e che gli conferiscono un’aria professionale, davvero come si deve, per la verità un po’ contraddetta dalle scarpe da footing e dai jeans anche se la maglietta risulta in tono e indossa un bel paio di occhiali da vista che gli conferiscono serietà.

Voce virile, forte e piena di armonici, un lieve accento che sa di antiche terre, gli rivolge un:

”Professore –

Pausa –

Mi posso sedere al primo banco?”

“Ma certo, può sedere dove vuole.”

Sono già le nove e trenta e fa un po’ caldo; dalla finestra entrano raggi di luce intensa e immagini di detenuti che ricevono visite di parenti, in un’aria che diventa già rovente.

“Professore –

Pausa –

L’avrebbe pensato che in un posto così potesse fare tanto caldo…”

“?”

Il professore rimane tre secondi stupefatto, perché non ha capito: un, due, tre… bang!

“Eh, già –

Risponde –

Dovremmo essere al fresco… “

Lorenzo ride con molta dignità.

Si sono intesi: gli ha dato la battuta ed il professore ha riposto quasi al tempo giusto. Sono, oramai, dentro alla pièce.

“Per terzo arriva il mio fratello musulmano, ed è tremante”

conclude tra sé il professore.

È vestito anch’egli in jeans, ma indossa una camicia in un tessuto molto leggero che gli ricorda Tunisi e anche le scarpe, portate senza calze, evocano la leggerezza di calzature arabe.

La paura dell’esame gli procura una tachicardia tanto violenta da togliere il fiato a chi lo osserva con attenzione. Ha gli occhi che implorano e sembra, quasi, condannato a morte.

Egli africano, musulmano e nero, chiuso in galera per motivi infamanti, si presenta davanti a noi, bianchi e cristiani, senza quasi conoscere la lingua, per strapparci il diploma dalle mani! “Un diploma ci rende, forse, uguali?”

Porta un grosso vocabolario per tradurre dall’inglese all’italiano: la sua lingua è araba, ma è stato educato dagli inglesi (ha quasi cinquanta anni) e pensa in arabo e in inglese. Parla bene però anche il francese.

È diverso dai fratelli maghrebini che sentono propria la cultura francese; questo musulmano inglese, cresciuto in un’oscura emarginazione razziale, rifiuta i suoi nuovi governanti, nati nella stessa sua terra e non sente prossima nemmeno la cultura dei precedenti coloni.

La sua cultura vera è quella antica, delle “mille e una notte”, che non esiste più.

“Cherif non riesce a vivere in nessun posto e, in carcere, riesce a fatica a rimanere al mondo agganciandosi, per ora, a struggenti ricordi in lenta dissolvenza.”

Così pensò il professore.

I commenti sono chiusi