Fiore di cactus

Fiore di cactus

di Barillet e Gredy

Compagnia delle Rane

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Il teatro amatoriale è una continua fonte di sorprese soprattutto perché chi lo anima si dedica spesso ad interessanti ricerche sui testi, commisurandoli con i mezzi disponibili. La compagnia delle rane sotto questo punto di vista è apprezzabile perché se è vero che la sua direzione artistica, il regista Oberdan Cesanelli, è intelligente e preparata, è altrettanto vero che gli altri suoi componenti risultano particolarmente attivi e si prestano alle varie esigenze tecniche con una partecipazione che sfiora la professionalità.
Abbiamo, ad esempio, sempre apprezzato la realizzazione delle scenografie e dei costumi e notiamo con piacere i miglioramenti nella dizione e nell’emissione della voce degli attori, come pure nei movimenti sul palcoscenico e nella libertà degli sguardi che riescono, ora, a spostarsi sul pubblico con poche inibizioni.
In particolare, nello spettacolo presentato sabato 28 marzo al Teatro Comunale di Morrovalle ci è sembrato encomiabile lo sforzo fatto dagli interpreti per memorizzare un testo piuttosto lungo e ricco di sfumature ironiche o drammatiche. Naturalmente non è ipotizzabile mantenere un ritmo elevato ed una varietà espressiva, per più di due ore di seguito, da parte di interpreti che non esercitano quotidianamente il mestiere dell’attore, per questo è apprezzabile la validità del risultato ottenuto anche nella sua discontinuità.
Nella mia mente è rimasto fortemente impresso l’omonimo film, cui si fa riferimento nel programma di sala: la bravura disincanta di Walter Matthau, la freddezza piena d’ironia di Ingrid Bergmann e la schizofrenica comicità di Goldie Hawn non sono facilmente emulabili da nessuno, ma costituiscono un modello che dovrebbe essere considerato da parte di chiunque si appresti ad affrontare lo stesso testo. Sarebbe utile, alla compagnia delle rane, riproporre lo spettacolo altre volte, affinché attraverso un “rodaggio” esso possa prendere il ritmo necessario, che si è intravisto in molte situazioni (nelle quali ci siamo lasciati andare a sonore risate).
La trama è semplice: un dentista di successo, Giuliano Foch, cambia spesso partner sentimentale proteggendosi con la menzogna di essere sposato con tre figli. L’ultima sua fiamma, Antonia Marechal, inscena un suicidio ma viene salvata dal vicino di casa, Igor Polanski, scrittore alle prime armi e attore di successo negli spot pubblicitari. Commosso da tale dimostrazione d’affetto, il protagonista decide di sposare la ragazza ma, inaspettatamente, incontra resistenze da parte di lei preoccupata della sofferenza di moglie e figli. Per uscire dall’impasse Giuliano Foch ricorre nuovamente alla menzogna: convince la fedele segretaria, espansiva come la pianta di cactus poggiata sulla scrivania, a recitare la parte della moglie in un surreale incontro con la ragazza, nel quale dichiari la propria intenzione di concedere il divorzio. La menzogna esita in una ulteriore incertezza di Atonia, che intuisce l’amore dell’altra.
Giuliano, ormai sospinto nel vortice della  falsità chiede alla segretaria Stefanie un secondo inganno: lasciarsi scoprire “per caso” in compagnia di un amante in un locale notturno.
Ma ancora gli equivoci si moltiplicano: nel locale arriva anche la Bionda del Botticelli, amante vera del falso amante di Stefanie, Bebert Champignon, amico di Giuliano. Invece Stefanie viene realmente corteggiata dal Colonnello Cochet e suscita anche le attenzioni di Igor Polanski  tanto che Giuliano Foch, sedotto dall’insospettata vitalità, che la segretaria manifesta fuori dello studio dentistico, scopre di sentirsene geloso.
Dibattendosi come un pesce nella rete, finisce con lo scoprire quanto possano risultare utili due ruoli in una stessa donna – segretaria severa ed innamorata – per rendere tranquilla la vita di un uomo maturo ed, in fondo, sostanzialmente pigro. Una piccolissima morale ottimistica appare sotto due aspetti: che il fiore del cactus sboccia improvviso ed è tanto più bello in quanto inaspettato e che l’unico antidoto al matrimonio è l’essere già sposati.

Vogliamo fare alcune considerazioni sugli attori e sul regista, per i quali nutriamo stima e ammirazione. Innanzitutto merita un plauso Giampaolo Fermanelli che è divenuto molto spigliato sul palcoscenico e, pur senza possedere una dizione ed una emissione vocali perfette, dimostra un’ottima presenza scenica ed utilizza una discreta gamma espressiva. Lucia Balzi era fisicamente adatta al ruolo della giovane amante, divertente ma un po’ troppo “intelligente” rispetto al personaggio di Antonia Marechal, dall’intuito contraddittorio e paradossale.
Federica Sacchini risultava adatta al ruolo interpretato, la compassata segretaria Stefania Vigneau segretamente innamorata del suo capo, ma veniva forse messa in difficoltà dalla posizione scomoda sul palcoscenico: sempre di fronte al pubblico, seduta dietro ad una scrivania che non le forniva una sufficiente protezione e, perciò, inevitabilmente irrigidita.
Michele Palmieri è ben entrato nella parte di Igor Polanski: spiritoso, audace e sfrontato come il personaggio richiede, ha ricevuto applausi calorosi.
Divertenti i comprimari: Graziella Del Monte ha reso un siparietto esilarante nella caricatura (un po’ eccessiva) della paziente egocentrica Signora Durand; Noam Prosperi nel ruolo di Bebert, l’amico avido e squattrinato, era sufficientemente credibile nonostante il marcato accento dialettale; Massimi Guglielmi, il colonnello Cochet, era ben concentrato sulla gamba irrigidita e divertiva il pubblico; Rosita Planitetti, la Bionda del Botticelli, con una parrucca biondo platino, sul palcoscenico aveva un ottimo impatto del quale, però, non era consapevole al punto di riuscire a muoversi con la giusta verve.
La scenografia, semplice ed efficace, secondo noi andava, però, meglio studiata perché ha costretto a troppi (e troppo lunghi!) cambi di scena e perché ha lasciato eccessivamente esposte Lucia Balzi, inizialmente, e Federica Sacchini, quasi per tutta la durata dello spettacolo: sarebbe stato sufficiente angolare il divano o la scrivania, oppure mettere un altro oggetto tra le protagoniste (sdraiate o sedute) ed il pubblico. Certamente verremo accusati di presunzione da chi conosce il teatro meglio di noi e, visto che comunque pagheremo per le nostre colpe, aggiungiamo ancora che ci piacerebbe leggere sul programma di sala anche il titolo delle belle canzoni, in lingua francese, scelte per accompagnare i movimenti scenici: ne abbiamo riconosciuta solo una (interpretata in Italia da Alberto Lupo e Mina: “Parole, parole”).

Pietro De Santis

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