Italians

Italians

italians1   di Giovanni Veronesi, Ugo Conti, Andrea Agnello
   regia di Giovanni Veronesi
   con Carlo Verdone, Sergio Castellitto, Riccardo Scamarcio

La commedia all’italiana è un genere cinematografico di tutto rispetto, che ha dato vita ad autentici capolavori, all’interno di un’arte generalmente fin troppo esaltata. La caratteristica della commedia all’italiana è la capacità di unire elementi profondamente contrastanti: ironia e drammaticità; spensieratezza e profonda riflessione; visione d’insieme ed analisi del particolare. Consapevoli di quanto ci potevano attendere (in termini di luoghi comuni) ci siamo mescolati alla folla dei teen agers del sabato sera, avendo acquistato il biglietto con largo anticipo, nella speranza di poter cogliere nel film alcuni elementi del nostro inconscio sociale – “«l’inconscio sociale» veicola messaggi, contenuti e valori che sovrastano la realtà individuale, e allo stesso tempo la formano, in un meccanismo continuo di reciproco scambio tra l’Io e gli Altri.” (Sandro Gindro, L’Oro della Psicoanalisi, 1993) –: speranza soddisfatta.
Nel primo episodio Sergio Castellitto è Fortunato, uomo di fiducia di un imprenditore che, per mantenere in attivo i conti propri e della società, alimenta un traffico di vetture rubate – costosissime Ferrari – diretto verso gli Emirati Arabi.
Nell’ultimo viaggio che accetta di fare, prima di “ritirarsi” da questa forma di incentivazione, egli si fa accompagnare da un giovane collega Marcello (Riccardo Scamarcio) che, nelle intenzioni sue e dell’imprenditore (Remo Girone), dovrà sostituirlo in futuro.
Il film ci porta alla scoperta di un mondo fatto di arretratezza e povertà estreme nonché di lusso e di tecnologie altrettanto estremi.
Nella notte di baldoria che conclude la spedizione (donne e champagne in un albergo di lusso a Dubai) avviene un fatto increscioso: un invitato inglese insulta e aggredisce Fortunato, italiano “pizza e mandolino”, mettendolo anche fuori combattimento con un pugno.
Il più giovane Marcello – tenutosi ai margini fino a quel momento – difende il collega e, dando vita ad un’inaspettata rissa degna di Chuck Norris, mette KO ben cinque avversari.
Dopo una notte trascorsa in prigione, ai due italiani viene richiesto di sostituire l’inglese – pilota automobilistico – in un race nel deserto tra due Ferrari, in quanto esperti del ramo.
Fortunato, che ama il rombo del motore Ferrari come l’aria della Turandot “Nessun dorma” cantata da Pavarotti, accetta la sfida e – naturalmente – invece di soccombere, vince.
Il premio in denaro è cospicuo, ma egli decide di donarlo integralmente al suo vero e (forse) unico amico: un modesto arabo che vive nel deserto tra Sharm el Sheik e Dubai, conosciuto e frequentato da più di una decina d’anni e la cui figlia, rimasta sfigurata in un incidente, potrebbe essere operata e riportata ad una vita più umana.
Sulla nave del ritorno, Marcello confessa di essere un agente speciale dei Carabinieri e di doverlo arrestare. Gli racconta, però, di aver fatto un sogno: che l’altro si fosse perso nel deserto ed egli non riuscisse più a trovarlo. Sulla nave c’è un improvviso trambusto: un uomo in mare! È Fortunato che nuota verso la vicina costa araba, inseguendo un antico sogno socialista (e omosessuale) fatto di uguaglianza e libertà.

Nel secondo episodio Carlo Verdone è un affermato dentista, nevrotico e solo: in occasione di un Congresso Internazionale a Pietroburgo, il socio gli organizza un tour sessuale, per tentare di destarlo dal torpore esistenziale.
In una Russia splendida, patria delle donne più belle e perverse e dei criminali più violenti e ricchi, l’imbranatissimo professore Carminati compie svariati errori di persona e di comportamento, vittima dell’avidità di un giovane mafioso lì trapiantato e dell’ostilità della bella traduttrice istituzionale. In un epilogo violento, egli viene salvato proprio dalla donna e nascosto in una dacia sul mar Baltico, casa famiglia per bambini orfani.
Davanti alle treccine bionde di una bambina ed alla richiesta d’affetto di un bimbo che dorme nel suo letto; tra una partita di calcio sulla spiaggia e una lezione di geografia umana sull’Italia, avviene il doppio miracolo della salvezza psichica e fisica dell’uomo: anch’egli decide di non tornare più indietro.

Il film è piaciuto ai ragazzi, che hanno riso ad ogni parola “cazzo” o “mignotta” pronunciata sullo schermo e ad ogni scena esagerata o paradossale, tutto come previsto.
Bisogna riconoscere che il film però possiede piccoli pregi: primo tra tutti la bravura di Sergio Castellitto e Carlo Verdone, veramente ottimi attori, e di Riccardo Scamarcio che, come si dice, si farà; inoltre è azzeccata la solita bella canzone dell’italico repertorio: è inserita bene, spicca e rimane impressa. Si tratta di “Meraviglioso” di Domenico Modugno, cantata per gioco da Castellitto e Scamarcio e seriamente dai Negroamaro.

I più evidenti luoghi comuni che il film ha “pescato” dal nostro inconscio sociale, per ottenere il consenso del pubblico, vanno enumerati a partire dalla tipica forma di pubblicità occulta cinematografica che, sinceramente, troviamo piuttosto volgare. La società di navigazione e la fabbrica di camion possono ben contribuire alla riuscita di un altro prodotto italiano, ma facendo inserire nei titoli di testa (e non di coda, perché nessuno li legge più) l’accenno al proprio intervento.
Il secondo luogo comune è la retorica per la quale gli italiani riescono sempre ad esprimere i buoni sentimenti: noi conosciamo tanti italiani ignobili, indifferenti, imbecilli ed idioti che – immaginiamo – riempissero gli stessi alberghi di Dubai e Pietroburgo mentre i nostri eroi vi giravano gli episodi del film.
Terzo luogo comune è il qualunquismo italico – patrimonio anche di Giovanni Veronesi – che porta ad affrontare alcuni problemi – ad esempio il rapporto con le altre culture – su di un piano meramente idealistico.
Il quarto luogo comune è il campanilismo nostrano, misto ad un atteggiamento piccolo borghese, che alimenta l’italica fissazione di dover dimostrare sempre e comunque una certa “inferiore” superiorità o “superiore” inferiorità, tanto cara agli amanti del “si stava meglio quando si stava peggio”.
Lo stesso regista ne personalizza un esempio con l’episodio del perfido autista, inglese perciò anti-italiano: qualcuno conosce l’ambiguo motivetto che ripete “sanzionami questo, o Albione rapace”, in voga nel periodo dell’autarchia fascista?
Un ulteriore, ma non ultimo, esempio di retorica-bieco-qualunquistico-piccolo borghese, più tenero sebbene più insensato, è dato dalla scena finale nella quale il professor Carminati dimostra il suo gran cuore poiché trasmette la “nostra” grande cultura ai bambini, insegnando l’Italia attraverso le differenze di accento: così si parla al nord, cosà in toscana, a Roma, in Sicilia etc.; come si trattasse di una grande originalità. Nelle altre nazioni del mondo non è forse anche così?

Il film contiene alcune citazioni che rendono, forse, più ammiccante il suo linguaggio. Ne indichiamo due: quella di “Mediterraneo” di Tornatore e quella di “C’era un Cinese in coma” dello stesso Verdone.
Nel primo caso ci riferiamo ad un’atmosfera ed al mare azzurro: la scoperta della ricchezza culturale degli altri, ipotetici avversari; il piacere di raccontarsi ed ascoltare; il sogno di costruire una nuova patria – ideale – fatta di comprensioni ed amicizie, ma impossibile nel paese dei “mutui-prima casa”; il piacere del mare che tutto unisce e divide; infine la decisione di restare lasciando alle spalle una società più perversa.
Nel secondo episodio ci riferiamo ad un’invenzione di Verdone – un siparietto –: il professor Carminati stacca inconsapevolmente il respiratore alla moribonda madre di un terribile boss russo, suscitando una comica grottesca, come nella barzelletta che dà il titolo al film “C’era un cinese in coma”: “Un cinese viene aggredito e ridotto in fin di vita. Viene portato in rianimazione, intubato e collegato a un respiratore per l’ossigeno. Ogni giorno il commissario di polizia va a vedere se si risveglia per potergli chiedere il nome dell’aggressore. Quando il cinese apre gli occhi, il commissario si avvicina e gli pone la domanda. L’altro gli risponde una frase strana in un italiano cinesizzato, poi sviene. La cosa si ripete più volte. Un giorno il cinese sembra essersi ripreso: il commissario si avvicina ed insiste per capire meglio. L’altro ripete tre o quattro volte, con disperazione, sempre la stessa cosa poi, improvvisamente, muore. Il commissario è sconcertato e dispiaciuto. La sera è a cena in un ristorante cinese e ricorda l’accaduto. Chiede allora al cameriere cosa possa significare quella frase. L’altro risponde:«”tu tieni tuo piede su mio tubo», ma io non so cosa voglia dire…”. Chissà se Verdone e Veronesi siano così attenti alle dinamiche inconsce, da intuire il successo comico di quella citazione? La banalità del male e l’indifferenza che ne deriva.

pietro de santis

 

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