Pamela Villoresi, Marlene Dietrich e il Sogno Americano

Pamela Villoresi, Marlene Dietrich e il Sogno Americano

Nello spettacolo teatrale Marlene – testo di Giuseppe Manfridi, regia di Maurizio Panici – Pamela Villoresi interpreta la grande attrice e cantante tedesca, naturalizzata americana, in tre momenti della parabola discente nella sua carriera: nel 1954, quando inizia l’attività di cantante giacché non è più richiesta nel mondo del cinema; nel 1960, quando inizia la collaborazione con Burt Bacharah; nel 1975, infine, anno in cui termina inevitabilmente ogni forma di esibizione, anche a causa di una frattura ad una gamba e a condizioni fisiche sempre più precarie (comunque, alla rispettabile età di 74 anni!).


Per giocare subito a carte scoperte, rivelo di non amare in modo particolare Marlene Dietrich né come attrice, né come cantante: invero, me ne sono interessato poco, anche se ho assistito con molta curiosità ai film “L’Angelo azzurro” di Josef von Stemberg e “Testimone d’accusa” di Billy Wilder. Per essere precisi, aggiungo come mi sia sempre sembrato “stupido” il primo film, e come ogni volta che l’abbia visto – ognuna delle tre volte – abbia cercato di convincermi, inutilmente, della sensualità del personaggio interpretato dalla grande attrice. Dichiaro, perciò, che Marlene Dietrich mi sembrava sensuale come un manico di scopa, nonostante avesse assicurato per una considerevole cifra le proprie gambe, parte del corpo che, evidentemente, esibiva più volentieri.
Aggiungo, tuttavia, di avere stimato illimitatamente Marlene per le scelte politiche che, nella mia esperienza culturale, sono analoghe a quelle di Heinrich Böll scrittore da me molto amato (non altrettanto dalla borghesia tedesca negli anni ’60, esattamente come l’attrice).
Capisco in ogni caso il mito che si è creato intorno alla donna: il mito dell’androgino o, forse più prosaicamente, del travestito.Fino agli anni settanta del secolo scorso, il travestitismo non comportava l’uso di ormoni ma solo, sostanzialmente, di trucchi teatrali: i travestiti, perciò, sembravano donne con poco seno ma generalmente dotate di gambe bellissime; in mezzo alle gambe, poi, nascondevano una sorpresa.
Moltissime persone, a Parigi dopo la seconda guerra mondiale e a Berlino prima della tragedia nazista, si recavano volentieri ad assistere a spettacoli “en travesti”, e ben due attrici europee americanizzate – Marlene, appunto, e Greta Garbo – riuscivano ad incarnare quell’ideale femminino e mascolino insieme, che tanto faceva vibrare i desideri degli uomini e delle donne del tempo. Quegli stessi desideri erano cinematograficamente rappresentati ma, per non offendere o smascherare l’ipocrisia borghese, venivano depotenziati grazie all’assenza del vero “corpo del reato” (il pene per chi non avesse capito). Nessuno, però, poteva impedire all’inconscio degli spettatori di attribuire a Marlene o a Greta ogni più intima virtù.

Il mestiere cinematografico di Josef von Stemberg, regista bieco e geniale, aveva saputo cogliere nel segno scoprendo l’ambiguità del sogno americano: il successo insieme alla corruzione, nella cui estensione si possono includere e tollerare tutti i significati, a patto che le “merci” siano bene esposte, le insegne luccicanti e le tasse risultino pagate.
Marlene è stata protagonista e vittima del sogno americano, per il quale esiste un’unica via di fuga: scomparire in alternativa al venire stritolati dallo “star system”, che ha consentito la realizzazione del sogno stesso. Greta scelse di scomparire, Marlene scelse di resistere.
Il testo di Giuseppe Manfridi, novità assoluta messa in scena dall’Associazione Teatrale Pistoiese in collaborazione con la Cooperativa Teatro Argot, ripercorre proprio questo percorso della Dietrich: il tentativo di restare sulla cresta dell’onda dell’ambiguità a dispetto di ogni sacrificio, proprio ed altrui. Così come “el Cid” cavalcava cadavere alla testa di un esercito, l’involucro della Marlene cinematografica esibiva, a debita distanza dal pubblico, l’ambiguo personaggio femminile ancora in grado di affascinare.
Pamela Villoresi ha saputo mostrare l’altra Marlene, quella della vita dentro al camerino o alla stanza d’albergo, prigioniera di se stessa e del proprio passato, le cui allucinazioni servivano a ribadire la certezza di un’identità. Si tratta perciò di un personaggio che rimanda all’Enrico IV di Pirandello oltre che agli spettri strindnbergiani, cui si fa cenno nel programma di sala.

La bravura di Pamela è universalmente riconosciuta ma in questo caso – se possibile – è ancora più straordinaria in quanto coraggiosa: entrare in quei panni è scomodo’ perché affrontare un mito espone alla miriade di pregiudizi che fanno da corollario al mito stesso. Una sua qualità, che vogliamo sottolineare in modo particolare, è la capacità di far apparire semplice ciò che semplice non è: tutti i gesti che compie la sua Marlene sono naturali e nello stesso tempo esasperati, così come il personaggio richiede. In particolare, ho trovato struggente il modo in cui Pamela ha interpretato le canzoni di Marlene: evocatorio e non imitativo, come l’eco di una voce che si è già andata spegnendo.
Tuttavia- a mio sentire- una critica al testo si ritiene necessaria: i molti riferimenti alle persone del mondo della Dietrich non sono sempre comprensibili per il pubblico, soprattutto per chi non ha letto una biografia della grande attrice.
Abbiamo invece apprezzato la bravura di tutti gli attori: innanzitutto Orso Maria Guerrini, giustissimo nella parte di Sternberg; le brave Silvia Budri, nella parte di Kater figlia di Marlene e Cristina Sebastianelli, Tami assistente di Marlene; spigliatissimo e con le “physique du rol” David Sebasti in quella di un giovane Burt Bacharah.
Ci è sembrato ottimo il lavoro del regista Maurizio Panici e dello staff tecnico: Andrea Taddei per le scene, Lucia Mariani per i costumi ed Emiliano Penna per le luci.
Una parola in particolare va spesa per le musiche di Luciano Valvolo, che riprendono sì i temi delle canzoni passate alla storia con la voce di Marlene, ma lo fanno con grande attenzione ed una certa originalità: particolarmente gradita è stata la brevissima ouverture iniziale, in cui vengono citate le melodie più importanti, come nelle opere liriche.
Uscendo dal teatro, ci ha fatto sorridere la voce, percepita tra i molti commenti ed apprezzamenti, di un signore un po’ attempato che sentenziava: “Ma la Villoresi non è Marlene…”. Nessuno sa chi fosse Marlene Dietrich: Marlene è un sogno americano.
Pamela Villoresi “ha interpretato” Marlene Dietrich ed il suo sogno americano.

Lo spettacolo è in tournée in varie città d’Italia.
pietro de santis

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