La giusta distanza

La giusta distanza

di Carlo Mazzacurati

 

la giusta distanza

 

La giusta distanza è la storia di un omicidio. La vittima è una bella ragazza, Mara, e della sua morte  viene ingiustamente accusato l’amante tunisino, Hassan. A individuare il vero assassino è un giovanissimo giornalista, ex amico dell’immigrato, ma solo a condanna e dopo il suicido dell’uomo. La giusta distanza è quella che deve mantenere chi desidera intraprendere la professione di giornalista: non farsi coinvolgere ma, anche, cercare di comprendere le emozioni agite nei fatti di cronaca.

Molti anni fa uscì un libro “Le città del dottor Malaguti”, di Roberto Pazzi, i cui protagonisti non erano individui ma: un luogo – il delta del Po’ – ed una città – Ferrara. Era un libro di azione corale che, attraverso i pensieri di più personaggi, narrava l’arrivo del popolo nuovo che parte dall’altro lato del mare.
Oltre ad essere un bel libro era anche sorridente, ottimista: parlava del popolo che viene dal di là del mare come del nostro futuro; ne parlava con tenerezza, sollevando lo sguardo verso un cielo limpido al cui orizzonte si delineavano i tetti di Ferrara.

Il film di Mazzacurati riporta alla mente quei racconti – spostati in avanti di quindici anni – ma riporta anche alla mente un film della nostra adolescenza. Scrivendo queste quattro parole “film della nostra adolescenza” il pensiero andava ad American Graffiti ma, nell’atto stesso dello scrivere, l’espressione ha assunto un altro significato.

Nell’azione scenica si intrecciano tre storie e tre concetti: il problema di essere donna, il problema di essere immigrato e la “giusta distanza”. Purtroppo l’inconscio sociale (Sandro Gindro, L’oro della psicoanalisi) ci costringe a parlare delle donne solo secondo i cliché della creatività e del rischio di violenza sessuale. Purtroppo la radicata convinzione che la donna “crei la vita” lascia scivolare verso l’inevitabile banalità di una “creatività femminile” tout court che fa da contraltare all’altrettanto inevitabile banalutà della “debolezza femminile” e spinge i più deboli ed invidiosi maschi imbecilli verso la tragica verità della violenza fisica.
I maschi sono imbecilli quando si compiacciono della debolezza fisica altrui, ma le donne non sono esseri deboli: sono potenti, aggressive, oltracotanti.

Nel film due scene sono emblematiche in questo senso: l’ingresso in paese di Mara, nelle vesti di “Boccadirosa”, ed i sensuali gesti di una normale intimità, osservati attraverso i vetri della finestra.
Ma il film non è così banale e si riscatta qualche immagine più in là nella tenera danza maschile, intrisa di omosessualità, dei due immigrati del Magreb disegnati con vera ammirazione attraverso gli sguardi delle donne: si tratta di una vera e propria intuizione di Mazzacurati che, solo attraverso i primi piani, ne delinea i desideri di possedere il maschio.

Il film coglie un secondo aspetto interessante: nonostante il razzismo e la xenofobia, nel nostro paese tutti sono bene accolti se rimangono al loro posto, nell’angolino. Essere badanti, persone di servizio, meccanici va bene, ma possedere sessualmente la bella del paese equivale a camminare fuori dal seminato. Ci piace sottolineare questo contenuto d’invidia del nostro inconscio sociale ricordando lo straordinario “Indovina chi viene a cena” cui una coppia di genitori, colti e progressisti non si turba nel sapere che l’amata figlia è innamorata di un nero. Si smarrisce piuttosto nello scoprire che “quel” nero non rispetta il cliché dovuto perché è colto, bello e ricco proprio come loro.
Il film di Mazzacurati in questo è benevolo e, più o meno ingenuamente, lascia compiere il vero gesto xenofobo alla protagonista femminile che scaccia l’immigrato, che la spia dalla finestra, per il timore di una possibile violenza, risarcendolo subito dopo con l’esplosione della passione sessuale.

Il terzo aspetto rilevante del film è nella scelta politica e nel desiderio di vedere il mondo con gli occhi di un’adolescenza lontana dal consumismo e convinta delle proprie ragioni. Si tratta dello stesso desiderio presente in “America Graffiti”: Giovanni, aspirante giornalista, segue tutto quanto accade, nel piccolo centro del delta del Po’, con l’interesse di chi ama. Egli è innamorato di una giovane atleta che fa gran salti e, poi, delle grosse mammelle della maestra Mara (incestuosamente scrutata) che promettono altri salti, ma anche della tenera figura di Hassan e di due amici, adulti un po’ sprovveduti. Ma soprattutto egli è innamorato del mondo grande, del vasto mare della vita in cui desidera navigare come Ulisse per diventarne cantore.
In America Graffiti il giovane aspirante scrittore, vincitore di un borsa di studio, vola all’università e mentre l’aereo decolla si intravede, nella strada sottostante, la macchina bianca guidata dalla prostituta che ne aveva risvegliato l’amore; nella bassa padana il giovane aspirante giornalista, svelato l’assassino di Mara, viaggia in pullman verso Milano, seguito dal triciclo a motore di uno dei due ingenui amici che vuole tributare a Giovanni il gesto d’amore finale: un agitare la mano.

Bisogna aggiungere infine che in questo film anche i cattivi sono buoni: il tabaccaio morboso corteggiatore di Mara ed anche il suo assassino, non vorrebbero il male ma lo compiono a causa dell’atavica imbecillità di cui sopra, che travalica il rispetto altrui. Un vero essere spregevole nel film esiste e rimane nell’ombra: il serial killer dei cani.
Ottima è stata la scelta dei caratteri; veramente bella la fotografia di Luca Bigazzi che consente di ammirare la struggente bellezza senza orizzonte del delta del Po’; le belle musiche di maniera di Tin Hat aggiungono armonia con discrezione e non si limitano a riproporre le tipiche canzoni d’atmosfera.
p.desantis

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