No man’s land

No man’s land

Il  7 agosto a San Demetrio ne’ Vestini, paesino a venti chilometri da L’Aquila, è andato in scena il quinto appuntamento della interessante e ben organizzata rassegna estiva “Pietre che cantano”, curata da Luisa Prayer giunta quest’anno all’ottava edizione.
Il concerto in programma era per duo – clarinetto e pianoforte – ed aveva come titolo terra di nessuno, “no man’s land” appunto. Il titolo è lo stesso di un disco pubblicato dai due interpreti: Alessandro Carbonare ed Andrea Dindo, e riprende quello di un famoso film, apparso nel 2001, che raccontava della guerra in Serbia, Croazia e Bosnia, guerra del 1993.


Il titolo esprime il suo fascino nell’accezione inglese, visto che quella lingua è molto imprecisa e lascia maggiori margini alla fantasia. Se io immagino una terra di nessuno vedo un postaccio di periferia, incolto e pieno delle più sordide immondizie che l’umana indigena idiozia ritiene inevitabile gettare in tutti i luoghi accessibili; ma se sogno una no man’s land posso persino vedere una distesa verde in cima ad una scogliera a picco sul mare o le dune di un deserto che si colorano di un rosso tramonto infuocato.
Nel caso in questione il termine si applica alla musica colta contemporanea che, forse, attualmente è proprio terra di nessuno: non c’è uno stile che prevalga e attribuisca una propria impronta alle composizioni. Questo lascia spazio a moltissime suggestioni (no man’s land) e ad un’altrettanto numerosa messe di schifezze (terra di nessuno).


Ma Andrea Dindo ed Alessandro Carbonare sono due grandi interpreti ricchi di gusto e personalità, esibiti anche nel corso di quello spettacolo. L’ambientazione era sufficientemente suggestiva: l’interno di una bella chiesa barocca, San Demetrio, mal restaurata con la facciata piatta e povera, tipica delle architetture abruzzesi, reso molto intimo dagli strumenti collocati nel mezzo della navata e circondati dal pubblico e ancor di più dalla fisicità dei due artisti, che sanno comunicare il piacere della propria arte.
Il concerto si proponeva interessante ed agile con musiche di Enrico Pieranunzi, Béla Kovàcs, Francis Poulenc, Eliseo Smordoni, Bela Bartòk, ancora Béla Kovàcs e Frank Zappa. Molto timido e melodico il brano Elisions du jour di Pieranunzi; la composizione di Kovàcs Gerswhin! era un divertente riassunto delle invenzioni di Gershwin; la sonata di Poulenc era affascinante e dotata di una discreta impronta; la Fantasia di Smordoni risultava molto ricca di idee, di cui nessuna dominante. Bellissimo Sholem alehkem di Béla Kovàcs: inizia con un movimento lento delicato in cui si propone la melodia struggente di nostalgia per la vita ed il crescendo ubriacante del finale non è la consueta esplosione di allegria folle, tipica dei brani klezmer più popolari, ma la scelta consapevole della ubriacante gioia realmente possibile. Molto interessante l’adattamento di Andrea Chenna sulle scoppiettanti invenzioni musicali di Frank Zappa (FZ for Alex): inizia con un brano il cui intento è togliere il fiato al clarinetto (bisogna adottare la “respirazione circolare” spiega Carbonare); si sviluppa e si conclude in modo veramente ironico con finte stonature – sottolineate anche con la mimica dagli ottimi interpreti – interventi con fischietti, vocalità e agitazioni varie.

 

Siamo certi che non molti i musicisti si dimostrino tanto versatili ma precisi nelle intonazioni, dotati di straordinaria espressività e capacità nel comunicare al pubblico quanto essi stessi abbiano compreso: si può certo affermare che non si tratta di interpreti avari. Divertente siparietto finale sulla musica di Camille Saint Saens, annunciata da Carbonare come bis quasi oltraggioso per l’esecuzione anche in stile Jazz: l’inconscio, sadomasochisticamente, ha giocato un tiro ed era scomparsa una pagina del brano!

 

p.desantis
 

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